martedì 29 marzo 2011

Nucleare: le scorie saranno la peggiore catastrofe

Quella nucleare si è rivelata fin dal momento della sua scoperta come una fonte energetica tanto innovativa quanto pericolosa e scarsamente “competitiva” dal punto di vista economico. Nonostante questi presupposti e la manifesta impossibilità da parte del mondo scientifico di valutare concretamente le ricadute di un’applicazione su larga scala degli impianti nucleari, sia in termini di effetti sulla salute umana, sia in termini di conseguenze sull’ambiente, molte nazioni nel corso della seconda metà del novecento hanno investito sul nucleare una quantità sempre più ingente di risorse.

Questo atteggiamento, apparentemente insensato, trova in parte la propria spiegazione nel fatto che l’antieconomicità e la ferale pericolosità dell’energia nucleare sono in larga misura determinate da un unico elemento “di disturbo” che è costituito dalle scorie radioattive, essendo stati fino ad oggi gli incidenti alle centrali presentati come rarissime fatalità.

La gestione delle scorie nucleari rappresenta infatti il vero tallone d’Achille dell’atomo, in assenza del quale l’energia prodotta tramite l’uranio potrebbe essere economicamente assimilata a quella prodotta utilizzando altre fonti quali il petrolio, il gas naturale o il carbone.

La reale complessità dei problemi legati alle scorie radioattive è stata fino ad oggi misconosciuta tanto dai governi quanto dagli esperti, nel palese tentativo di accreditare come economicamente convenienti e sostanzialmente sicuri gli impegnativi programmi energetici basati sul nucleare. Parimenti a quello delle scorie anche il problema della sicurezza degli impianti è stato minimizzato, nonostante le terribili conseguenze degli incidenti che sono stati resi pubblici (di molti non se ne è mai avuta notizia) Chernobyl su tutti, abbiano messo in luce la dimensione di estrema pericolosità della scelta nucleare. Almeno fino a questi ultimi giorni, quando la catastrofe di Fukushima sembra avere costretto il mondo intero ad aprire gli occhi.....

Proprio l’incidente di Chernobyl unitamente alla manifesta impossibilità di nascondere a tempo indeterminato le problematiche legate alle scorie radioattive hanno determinato a partire dalla fine degli anni 80 una diminuzione degli investimenti nell’ambito del nucleare, soprattutto da parte dei paesi tecnologicamente più avanzati. In Italia il referendum del 1987 decretò la rinuncia definitiva a produrre energia tramite l’uranio, ma anche nazioni che traggono dal nucleare una cospicua fetta del proprio fabbisogno energetico come Stati Uniti e Germania stanno dimostrando di credere sempre meno nel nucleare, non avendo messo in cantiere nell’ultimo decennio progetti finalizzati alla costruzione di nuove centrali che sostituiscano quelle prossime alla chiusura.

Questa linea di tendenza improntata ad un certo disimpegno nei confronti del nucleare è però stata messa seriamente in discussione recentemente dall'amministrazione Obama che prima del disastro giapponese aveva manifestato l'intenzione di tornare ad investire sull'atomo, così come da altri governi, compreso quello italiano, che tornano a guardare alle centrali atomiche come ad un obiettivo per il futuro.

Secondo i dati della World Nuclear Association aggiornati al 2004, attualmente nel mondo sono operative 439 centrali nucleari che producono circa il 16% dell’elettricità consumata sul pianeta, corrispondenti a circa il 7% dell’energia.

Negli Stati Uniti gli impianti nucleari in attività sono 103, in Francia 59, in Giappone 54, in Russia 31, nel Regno Unito 23, in Sud Korea 20, in Canada e in Germania 17, in Ucraina 15, in India 14, in Svezia 11, in Spagna e in Cina 9, in Belgio 7, in Slovacchia, nella Repubblica Ceca e Taiwan 6, in Svizzera 5.

Oltre alla quantità degli impianti presenti sui vari territori è interessante notare quale importanza il nucleare rivesta sulla produzione energetica dei singoli paesi. La Francia (prima fra tutti con l’eccezione della Lituania la cui unica centrale nucleare produce l’80% dell’energia consumata) copre tramite l’atomo il 78% dell’intero fabbisogno energetico nazionale, la Slovacchia il 57%, il Belgio il 55%, la Svezia il 50%, l’Ucraina il 46%, la Svizzera, la Slovenia e la Sud Korea il 40%, la Bulgaria il 38%, l’Armenia il 35%, l’Ungheria il 33%, la Repubblica Ceca il 31%, la Germania il 28%, la Finlandia il 27%, il Giappone il 25%, la Spagna e il Regno Unito il 24%, gli Stati Uniti il 20%, la Russia il 17%, il Canada il 12,5% e l’India appena il 3,3%.

La Francia insieme alla Lituania è l’unico paese ad avere basato sul nucleare tutto il proprio programma energetico, fino al punto di produrre tramite l’uranio oltre i tre quarti del proprio fabbisogno energetico. Altre nazioni, in maggioranza di piccole dimensioni, come Slovacchia, Belgio, Svezia, Ucraina, Svizzera, Slovenia, Sud Korea, hanno investito sull’atomo in maniera rilevante e traggono dal nucleare circa la metà dei propri consumi energetici. Alcune fra le nazioni più grandi, come Germania, Giappone, Spagna, Regno Unito, Russia, Stati Uniti, pur possedendo un’ingente presenza di centrali nucleari, traggono dall’atomo solamente il 20,/25% del loro fabbisogno energetico. Per molte altre nazioni come Argentina, Brasile, Cina, India, Messico, Olanda, Pakistan, Romania, l’incidenza della produzione di energia nucleare sulla globalità dei propri consumi è scarsamente rilevante e non arriva a raggiungere il 10%.

Se interpretiamo questi dati alla luce di quelli concernenti le nuove centrali nucleari in costruzione e in progetto nei singoli paesi possiamo renderci conto di come alcune nazioni economicamente emergenti o comunque in fase di forte sviluppo manifestino una grande propensione ad investire sull’atomo, mentre la maggior parte dei paesi tecnologicamente avanzati, con l’esclusione del Giappone e del Canada, si mostri refrattaria ad impegnarsi in nuovi investimenti nell’ambito del nucleare.

In Cina le nuove centrali atomiche in costruzione o in progetto sono 29, in India 33, in Giappone 14, in Russia 13, in Sud Korea 8, in Canada e in Iran 5, in Romania 4, in Turchia 3, in Indonesia, nella Repubblica Ceca, in Vietnam, in Slovacchia 2.

Gli Stati Uniti (prima delle parole di Bush all’ultimo G8) avevano in costruzione un solo reattore nucleare, pur essendo prevista entro pochi anni la chiusura di alcuni impianti giunti alla fine del proprio ciclo di vita. La Germania e il Regno Unito non hanno centrali nucleari né in costruzione né in progetto, anche se molti impianti verranno dimessi nel corso del prossimo decennio, così come la Spagna, la Svezia, la Svizzera, il Belgio, l’Olanda e la Slovenia.

Attualmente ogni anno nel mondo vengono prodotte circa 10.000 tonnellate di scorie nucleari e i rifiuti radioattivi prodotti fino al 2005 si calcola ammontino a 270.000 tonnellate.

I soli Stati Uniti posseggono 40.000 tonnellate di scorie, la Francia 8000 tonnellate, il Giappone 7000 tonnellate e ci riesce difficile immaginare che nessuna di esse fosse accatastata nell'ampissima zona interessata dal terremoto e dallo tsunami di questi giorni, anche se finora nessuno ci ha raccontato che fine abbiano fatto.

Le scorie nucleari derivano dal combustibile esausto originatisi all’interno del reattore nel corso dell’esercizio, ma anche dagli scarti di lavorazione, dai rottami metallici, dagli indumenti protettivi. La loro pericolosità dipende sostanzialmente dallo stato in cui si trovano (solido, liquido o gassoso), dal potenziale di radioattività in esse contenuto e dalla durata nel tempo della loro pericolosità.

Le scorie nucleari vengono suddivise in tre categorie in base al loro grado di radioattività e al periodo temporale di dimezzamento, fatto salvo per una parte di esse che essendo considerata non pericolosa viene dispersa normalmente nell’ambiente, come accade per i reflui del raffreddamento che vengono scaricati direttamente nelle acque dei fiumi.

Le scorie di prima categoria costituiscono circa il 90% del totale, sono classificate come debolmente radioattive e restano pericolose per qualche decina di anni. Esse sono costituite da carta, stracci, indumenti, guanti, soprascarpe, filtri liquidi e derivano oltre che dalle installazioni nucleari anche dagli ospedali , dalle industrie e dai laboratori di ricerca. Un tipico reattore nucleare ne produce annualmente circa 200 m³.

Le scorie di seconda categoria rappresentano circa il 7% del totale, possiedono una radioattività relativamente alta e rimangono pericolose per alcune centinaia di anni. Sono composte dagli scarti di lavorazione, dai rottami metallici, dai liquidi, dai fanghi e dalle resine esaurite e derivano principalmente dalle centrali nucleari, dagli impianti di riprocessamento e dai centri di ricerca.

Le scorie di terza categoria costituiscono solo il 3% del totale ma rappresentano da sole il 95% della radioattività complessiva, vengono definite ad alta attività e la loro carica mortale si prolunga per molte migliaia di anni, fino a 250.000 anni nel caso del plutonio. Sono composte dal combustibile nucleare irraggiato e dalle scorie primarie del riprocessamento e derivano unicamente dalle centrali nucleari e dagli impianti di riprocessamento. Un tipico reattore nucleare ne produce annualmente circa 30 tonnellate che corrispondono una volta riprocessate a 4 m³ di materiale vetrificato.

Il problema dello stoccaggio e della messa in sicurezza delle scorie nucleari appare tanto insormontabile quanto lontano da una possibile soluzione anche in virtù del fatto che in tutto il mondo i rifiuti radioattivi continuano ad accumularsi in maniera sempre più cospicua anno dopo anno. Basti pensare che gli Stati Uniti producono annualmente 2300 tonnellate di rifiuti radioattivi e nella sola Francia si produce una quantità annua di nuove scorie pari a tutte quelle attualmente presenti in Italia.

Il solo smantellamento di una centrale nucleare alla fine della sua vita operativa produce una quantità di scorie di quasi tre volte superiore a quella prodotta durante i 40 anni della sua attività. E per una cospicua parte delle 439 centrali attualmente attive è ormai vicino il momento del pensionamento. Verranno mai smantellate, dal momento che gli stati interessati sembrano non possedere il denaro necessario a condurre un'operazione costosissima di questo genere? O resteranno in piedi per secoli come monumenti radioattivi a testomonianza della scelleratezza dell'essere umano?

Fino ad oggi si è tentato di neutralizzare solamente le scorie nucleari meno pericolose (quelle di prima e seconda categoria) adottando una serie di soluzioni tecniche volte a garantire un minimo grado di sicurezza. Nei paesi membri della IAEA sono attualmente attivi oltre 70 depositi definitivi per rifiuti nucleari a bassa radioattività (circa 300 anni) una dozzina sono già stati chiusi, una decina stanno per chiudere, almeno 20 sono in fase di costruzione e molti altri sono in fase di progettazione.

La maggior parte di essi (circa il 90%) sono costruiti in superficie e costituiti da trincee, tumuli, silos e sarcofaghi di calcestruzzo, volti a garantirne la conservazione in tutte le condizioni prevedibili. Il restante 10% è costituito da depositi posti in cavità sotterranee o in formazioni geologiche profonde.

A garanzia della sicurezza di tali depositi sono state adottate barriere artificiali più o meno complesse (a seconda della rigidità del clima e delle caratteristiche del territorio) e sistemi di monitoraggio ambientale estesi oltre che al deposito anche alle aree circostanti.

Appare comunque evidente come sia un esercizio sillabico privo di senso parlare di sicurezza facendo riferimento ad un periodo temporale di 300 anni. Anche nel caso (non sempre probabile) di una perfetta tenuta delle strutture per tutto l’arco di tempo, subentrerebbe infatti l’altissimo rischio di eventi imponderabili quali attentati terroristici, guerre, terremoti, alluvioni ed incidenti di vario genere, la cui possibilità in un periodo così lungo non è affatto remota.

I depositi definitivi esistenti nel mondo riguardano esclusivamente i rifiuti nucleari a bassa radioattività e viene spontaneo domandarsi cosa sia stato fatto per quanto concerne le scorie di terza categoria ad alta radioattività, minori quantitativamente ma enormemente più pericolose in quanto fonti di radiazioni per decine di migliaia di anni, fino a 250.000 anni.

In realtà per mettere in sicurezza i rifiuti nucleari ad alta radioattività non è stato fatto assolutamente nulla, o meglio tutto il gotha della tecnologia mondiale ha dimostrato di non avere assolutamente né i mezzi né tanto meno le conoscenze tecnico/scientifiche per affrontare un problema che travalica di gran lunga le capacità operative dell’essere umano, qualunque siano le sue competenze tecniche e scientifiche.

Rapportarsi con periodi di tempo il cui ordine è quello delle ere geologiche significa abbandonare ogni stilla di realismo, per rifugiarsi fra le pieghe dell’utopia, dell’incoscienza e della pazzia.

Nulla e nessuno potrà mai prevedere le mutazioni di ogni genere che riguarderanno il pianeta nei prossimi 100/200 mila anni, né individuare luoghi o spazi adatti a stipare in sicurezza le scorie ad alta radioattività in un futuro tanto lontano.

Nonostante ciò, almeno virtualmente, alcune ipotesi sono state prese in considerazione. Una delle più realistiche consiste nel depositare i rifiuti radioattivi dentro formazioni geologiche naturali, profonde centinaia o migliaia di metri. Tale soluzione, che potrebbe avere un senso per quanto concerne le scorie a bassa radioattività, ne diviene priva se riferita ai rifiuti altamente radioattivi, in quanto durante svariate decine di migliaia di anni anche la conformazione di grotte e caverne è per forza di cose destinata a mutare radicalmente.

Fra le opinioni maggiormente condivise a livello scientifico vi è anche quella che ventila il ricorso ad un unico deposito geologico internazionale, localizzato in uno dei luoghi più remoti del pianeta. A questo proposito è nato il progetto Pangea, finanziato da enti internazionali, con il compito d’individuare eventuali aree adatte allo stoccaggio delle scorie. Tale progetto ha finora individuato siti d’interesse nell’area più remota dell’Australia, in Sud America e in Asia, ma che si tratti di un deposito unico o di più depositi il problema resta sempre quello di un’affidabilità limitata al futuro prossimo, a fronte di un investimento di capitale talmente ingente da far diventare quella nucleare la fonte energetica di gran lunga più costosa. Il concentramento delle scorie provenienti da tutti i singoli paesi all’interno di un unico sito comporterebbe inoltre la necessità di fare viaggiare il materiale radioattivo per migliaia di chilometri, determinando rischi incalcolabili ed enormi costi connessi al trasporto di sostanze altamente pericolose.

Alcuni scienziati hanno preso in considerazione anche progetti fantascientifici ma privi di realismo, quali l’invio nello spazio delle scorie nucleari più pericolose, la loro dislocazione nei pressi delle placche tettoniche, nella speranza che vengano risucchiate verso il mantello che ricopre il centro della terra, l’alloggiamento dei rifiuti radioattivi nei ghiacci dell’Antartico.

Che fine hanno dunque fatto e continuano a fare le scorie nucleari di terza categoria destinate a rimanere un pericolo mortale per le prossime 10.000 generazioni?

In alcuni casi purtroppo, essendo divenuto quello dello smaltimento delle scorie un business miliardario, esse sono finite nelle mani di società senza scrupoli che si occupano di “esportarle” nei paesi più poveri, senza le opportune misure di sicurezza o di collocarle in contenitori che vengono poi gettati sul fondo del mare, con devastanti conseguenze dal punto di vista ambientale e sanitario. Nel secolo passato spesso le scorie nucleari sono state gestite in maniera del tutto inadeguata, per mera convenienza economica e mancanza delle opportune conoscenze scientifiche, determinando la contaminazione dei territori e delle persone.

Attualmente quando vengono rispettate le opportune misure di sicurezza, le scorie nucleari di terza categoria, dopo essere state riprocessate e ridotte allo stato di materiale vetrificato vengono alloggiate negli appositi container e stoccate all’interno di strutture provvisorie (generalmente cassoni di calcestruzzo) in attesa di una destinazione definitiva che potrebbe non arrivare mai.

In realtà risultando troppo pericoloso e del tutto inutile l’interramento delle scorie ad alta radioattività, anche qualora si scegliessero come siti di stoccaggio le formazioni geologiche profonde più adatte allo scopo, la scelta generalmente adottata è quella di stiparle in luoghi di superficie facilmente accessibili, confidando nella speranza che l’evoluzione della tecnica “scopra” in un prossimo futuro qualche soluzione accettabile.

Credo sia superfluo sottolineare come questo atteggiamento attendistico, oltre a non dare alcuna risposta al problema, si presenti altamente rischioso, contribuendo a creare i prodromi di una tragedia nel malaugurato caso di catastrofi naturali (terremoti, tsunami, inondazioni e uragani) che l'attualità di questi giorni ci sta insegnando a considerare più reali che mai, o di attacchi terroristici, guerre ed altri eventi bellici, che intervengano a creare i presupposti per un disastro di proporzioni inenarrabili.


Di Marco Cedolin

martedì 8 marzo 2011

Il Cristo storico

Per “Cristo storico” si intende la intricata disputa fra teologi, esegeti, archeologi, studiosi laici e credenti, che dura ormai da oltre un secolo, sulla effettiva esistenza del personaggio di Gesù Cristo.

In altre parole, molti nel corso del tempo si sono domandati, e continuano a domandarsi, “ma Gesù è esistito davvero, o è soltanto una bella fantasia”?

Diciamo subito che non vi sono prove assolute nè in un senso nè nell’altro. Vi è però una sufficiente quantità di riscontri documentali - fra cui primeggiano ovviamente i Vangeli - per affermare almeno che un certo predicatore di nome “Joshua” abbia calcato il suolo della Palestina in quel periodo storico. Il vero problema, casomai, è stabilire quali episodi a lui attribuiti siano veri e quali eventualmente no.

Nel cercare di ricomporre questo complicato puzzle, infatti, subentrano continuamente possibilità di una lettura allegorica, che spesso “sdoppiano” il personaggio di Gesù in una versione prettamente umana, ed un suo possibile duplicato “simbolico”, con valenze anche divine.

In altre parole, il Gesù che predicava alle genti nelle piazze è lo stesso Gesù che faceva i miracoli e camminava sull’acqua? O forse quello “miracoloso” è uno strato aggiuntivo, sovrapposto alla figura del normale predicatore per aumentarne la credibilità presso i suoi contemporanei? Oppure ancora, i “miracoli” erano veri miracoli - nel senso che trasgredivano le leggi della natura - o erano solo rappresentazioni metaforiche di banali eventi quotidiani? (Ad esempio, nella comunità degli Esseni il sacerdote che praticava i battesimi raggiungeva il centro della pozza d’acqua camminando su una sottile plancia di legno, e visto da lontano sembrava che camminasse sull’acqua. Era infatti definito, all’interno della comunità, “colui che cammina sull’acqua”. Se Cristo fosse stato – come molti sostengono – un sacerdote esseno, faceva dei veri miracoli, o era semplicemente uno a cui non piaceva bagnarsi i piedi?)

Ma il vero problema, che rende difficile una qualunque ricostruzione storica, sta nel fatto che la stessa fonte dei Vangeli sia “inaffidabile” per sua natura. Contrariamente a quanto molti credono, infatti, i Vangeli “degli apostoli” non furono scritti direttamente da Marco, Matteo Luca e Giovanni, ....


... ma dai loro discepoli, o dai discepoli dei loro discepoli, una cinquantina di anni più tardi. Al tempo di Gesù prevaleva ancora la tradizione orale, e soltanto sul finire del primo secolo si iniziò a sentire l’esigenza di mettere anche il tutto nero su bianco.

E come ben sa chiunque abbia giocato a “passaparola”, una frase come “ho perso il sonno” fa molto in fretta a diventare “è morto il nonno”.

Ecco perchè, in questo caso, assumono grande importanza i riscontri incrociati. Se il Vangelo “A” descrive un certo episodio, e lo stesso episodio si ritrova anche nel Vangelo “B”, si moltiplicano di colpo le possibilità che l’episodio sia accaduto davvero. Secondo la tradizione, infatti, i discepoli si sarebbero dispersi dopo la morte di Gesù, dando vita a “rivoli” separati di tradizione orale, che hanno viaggiato in modo indipendente fino al momento di venir fissati sulla carta.

Per quanto preziosi, però, i riscontri incrociati rappresentano anche un’arma a doppio taglio: chi ci dice infatti che un certo passaggio del Vangelo “A”, invece di riportare la tradizione orale da cui deriva, non sia stato semplicemente copiato dal Vangelo “B”? Poichè nessuno conosce il momento esatto di pubblicazione di ciascun Vangelo, infatti, è possibile che certe comunità cristiane abbiano attinto da altri testi evangelici, già in circolazione al momento di scrivere il proprio.

E’ lo stesso problema descritto da Walter Benjamin, duemila anni dopo, nel suo libro “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, ed è un problema che ormai tutti viviamo quotidianamente in Internet.

Vi sono intere parti del Vangelo di Luca, ad esempio, che sono chiaramente tratte dal Vangelo di Marco (certi passaggi sono letteralmente copiati, parola per parola). La stessa cosa avviene per Matteo, di cui quasi la metà del testo è chiaramente tratta da Marco. Il Vangelo di Marco quindi viene collocato prima, in ordine di tempo, di quelli di Luca e Matteo. A loro volta, però, Luca e Matteo hanno molte parti in comune che non compaiono in Marco, portando ad ipotizzare l’esistenza di un quinto Vangelo, detto “Q”, che sarebbe stato contemporaneo di Marco. (“Q” sta per “quelle”, che in tedesco significa “la fonte”).

C’è poi il Vangelo di Giovanni, fra i cosiddetti “canonici”, che presenta una lettura molto diversa dai tre precedenti della vicenda di Gesù. I primi tre infatti sono detti anche "sinottici", che significa letteralmente che "la vedono allo stesso modo", implicando che Giovanni la vede invece in modo diverso.

Ma la “tombola” delle possibilità non si esaurisce certo con l’identificazione storica delle diverse fonti evangeliche. Fra queste e i Vangeli giunti fino a noi, infatti, ci sono quasi 300 anni di dispute feroci fra i cosiddetti “Padri della Chiesa”, cioè i vescovi e i sacerdoti di tutte le più importanti comunità cristiane dell’epoca, su molte questioni di fondamentale importanza storica e teologica.

La più nota di tutte fu la diatriba sulla reale natura di Gesù, fra chi sosteneva che fosse una entità separata da quella divina, che da questa discendeva, e chi invece diceva che fosse costituito dalla "stessa sostanza" del Creatore. Vinsero i secondi, che scomunicarono il vescovo Ario, sostenitore dlla prima ipotesi.

Naturalmente, nell’ambito di queste dispute interminabili, i testi sacri passavano continuamente di mano in mano, creando infinite possibilità per la “scomparsa” di certi passaggi scomodi, come per la comparsa delle cosiddette “interpolazioni”. Alcuni scambi epistolari fra i vescovi dell’epoca, ad esempio, suggeriscono che Gesù predicasse la reincarnazione, “caratteristica” dell’esistenza umana che sarebbe del tutto scomparsa nella versione finale del cristianesimo, poichè in contraddizione con la visione escatologica della vita, di fondamentale importanza per chi avrebbe imperniato tutto il suo potere sulla “paura dell’inferno”. (Si campa una volta sola, ci dice il cristianesimo, e chi sbaglia è perduto per sempre. Se invece ci fosse stata la possibilità di ritornare, e di rimediare agli errori commessi nelle vite precedenti, i preti rischiavano di venire accolti da una selva di pernacchie ogni volta che nominassero l’inferno. Via quindi la reincarnazione, e avanti con il Diavolo, il tridente e il Giudizio Individuale).

A loro volta, sul fronte delle interpolazioni ci sono diversi passaggi che lasciano decisamente in dubbio gli studiosi, in quanto sembrano inseriti apposta per rimediare a vistosi “buchi narrativi”, che a loro volta testimoniano della grande confusione che dovesse regnare fra i Padri della Chiesa in quel periodo.

Vi sono alcuni casi in cui è stato addirittura possibile dimostrare che un certo passaggio sia platealmente falso, cioè aggiunto in seguito alla stesura originale. In una certa lettera di S.Paolo, ad esempio, l’apostolo utilizza una espressione verbale che sarebbe entrata in uso solo una cinquantina di anni dopo, dimostrando che il passaggio è stato aggiunto in seguito, da qualche scriba poco attento all’evoluzione del linguaggio.

E’ come se in un film degli anni ’50 Alberto Sordi si mettesse improvvisamente a gridare “viulèeeenza!”, quando tutti sanno che quell’espressione è stata coniata negli anni ’80 da Diego Abatantuono. In quel caso sarebbe chiaro che la scena è falsa, e che è stata aggiunta in seguito, ovvero “interpolata” fra quella che la precede e quella che la segue.

In ogni caso, fu solo nel 325 che i Padri della Chiesa consegnarono nelle mani di Costantino la “versione ufficiale” del cristianesimo come lo conosciamo oggi. Era costituita da 36 libri della Bibbia ebraica (“Antico Testamento”) con l’aggiunta del “Nuovo Testamento”, che contiene i 4 Vangeli canonici (Marco, Matteo, Luca e Giovanni), gli “Atti degli Apostoli”, le “Epistole” e l’ “Apocalisse di Giovanni” (il noto testo profetico in cui compaiono anche la “bestia”, la “grande prostituta” e il numero “666”).

Va notato che Paolo viene considerato uno degli apostoli, per quanto non abbia mai incontrato Gesù nella sua vita. Solo dopo la sua morte si sarebbe convertito al cristianesimo (sulla via di Damasco), del quale propose una interpretazione “per i gentili” che avrebbe condizionato più di ogni altro apostolo la futura dottrina cristiana.

Ma i problemi di discordia non finirono certo con la definizione dei Vangeli canonici: a furia di cambiare, di aggiungere, di tagliare e di interpolare, i Padri della Chiesa non si sono nemmeno accorti che questi quattro Vangeli finiscono spesso per contraddirsi fra di loro. Se prendiamo ad esempio la scena della crocefissione, abbiamo addirittura tre versioni diverse sulle ultime parole di Gesù:

MARCO: Gesù gridò con voce forte: Eloì, Eloì, lemà sabactàni?, che significa: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? … Ma Gesù, dando un forte grido, spirò.

LUCA: Gesù, gridando a gran voce, disse: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito». Detto questo spirò.

GIOVANNI: Gesù disse: «Tutto è compiuto!». E, chinato il capo, spirò.

Secondo Matteo, Luca e Giovanni a Gesù fu dato aceto da bere, imbevuto in una spugna. Secondo Marco invece era vino con mirra.

Per Marco la prima a visitare il sepolcro, la domenica mattina, fu Maria Maddalena, insieme all’“altra Maria”. Secondo Marco c’era anche Salomè. Secondo Luca c’erano Maria Maddalena, Giovanna, Maria madre di Giacomo, e altre donne. Secondo Giovanni Maria Maddalena era sola.

Marco racconta che all’alba della domenica le donne trovarono il sepolcro sigillato dalla grande pietra. Matteo, Luca e Giovanni dicono invece che la pietra era già stata rimossa. Eccetera eccetera eccetera…

Non si tratta certo di contraddizioni gravi, poichè non intaccano la coerenza complessiva del racconto, ma testimoniano del percorso particolarmente “accidentato” che debbono aver fatto queste narrative prima di finire una volta per tutte sulla pagina scritta.

E finora abbiamo parlato solo di quelli canonici, cioè dei Vangeli “ufficiali” che i Padri della Chiesa hanno scelto di inserire nel Nuovo Testamento. Ma esiste tutta una serie di Vangeli, detti “apocrifi”, che sono rimasti esclusi dalla selezione, e che raccontano spesso una storia molto diversa.

Va notato che “apocrifo” non significa “falso”, come molti credono, ma “nascosto”. Il termine deriva dal greco apò-kryptomai, dove apò significa “sotto”, e kryptomai significa nascondere. (Da cui il termine “cripta”, che è un locale sotterraneo della chiesa, quasi sempre nascosto al pubblico). Pare infatti che alcuni preti, meno ubbidienti di altri, tenessero questi documenti ben nascosti “sotto l’altare”, per evitare persecuzioni da parte delle autorità ecclesiastiche, che ne proibivano la circolazione. Solo con il tempo, a furia di dichiarare questi Vangeli “falsi”, il termine apocrifo è venuto ad assumere quel significato.

Gli apocrifi offrono quindi agli studiosi una serie ulteriore di riscontri incrociati, nella loro faticosa ricerca del Cristo storico. Se si prende ad esempio il Vangelo di Tommaso, ritrovato in Egitto nel 1947, e lo si confronta con i canonici, risulta che circa la metà degli episodi descritti nel primo (una cinquantina circa) compaiono anche nei secondi. E poichè il Vangelo di Tommaso, che risale circa al 200 d.C., ci è giunto praticamente intatto, grazie all’otre che lo ha protetto per 18 secoli, avremmo di fronte un’ulteriore conferma della probabile veridicità di almeno una parte degli episodi attribuiti a Gesù.

Ce ne sono però almeno altrettanti che non trovano corrispondenza nei canonici, e questo ha gettato nel più totale scompiglio molti studiosi, aprendo le porte ad una serie di possibilità praticamente infinita sulla reale esistenza di Gesù.

Paradossalmente, i dubbi non si dissolvono nemmeno con la sua morte, ma continuano anche dopo. Vi sono infatti diversi elementi che suggeriscono che Gesù non sia affatto morto sulla croce, ma sia stato salvato in extremis dai suoi discepoli, e portato via di nascosto durante la notte.

Quando il costato di Gesù viene trafitto dalla lancia, ad esempio, esce del sangue. Questo significa che Gesù, nonostante le apparenze, fosse ancora vivo. (Da un cadavere trafitto non esce più sangue, perchè viene a mancare la pressione arteriosa).

Sul finire della giornata entra in scena un curioso personaggio, Giuseppe da Arimatea, che chiede ed ottiene da Pilato il permesso di portarsi via il corpo di Gesù. Chi era, da dove veniva, e perchè mai i discepoli ed i familiari di Gesù glielo avrebbero concesso così facilmente? Quando giunge al Calvario questo Giuseppe porta con sè 30 o 40 chili di unguento di aloe, con i quali ricopre il corpo di Gesù prima di seppellirlo. Ma l’aloe è anche un potente disinfettante, che in quel tempo veniva usato proprio per curare le ferite.

Tutta la faccenda della pietra smossa, inoltre, sembra indicare più una fuga terrena, praticata in fretta e furia dai discepoli che si portavano via Gesù, che non un “risorgere” di tipo divino. Anche le bende lasciate all’interno del sepolcro vuoto sembrano testimoniare di una “rinascita” molto frettolosa e terrena.

Per quanto noi siamo abituati a pensare che Gesù sia “andato direttamente in Paradiso”, infatti, va ricordato che i Vangeli ci parlano di un semplice “risorgere”, inteso come “rialzarsi”.

“E' risorto, non è qui – dicono i personaggi trovati dalle donne di fronte al sepolcro - Ecco il luogo dove l'avevano deposto. Ora andate, dite ai suoi discepoli e a Pietro che egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete, come vi ha detto”.

Ed infatti Gesù apparirà più volte ai discepoli, nei giorni seguenti, in situazioni del tutto “terrene”, mentre l’ “ascensione” vera e propria avviene, sempre secondo i Vangeli, solo 40 giorni dopo.

Nel libro “Jung e i Vangeli perduti” lo storico Stephan Hoeller ha raccolto tutti gli elementi, i dati storici e i reperti archeologici che sembrano supportare la tesi che Gesù sia effettivamente morto in India, una ventina di anni più tardi. Dopo essere sopravvissuto alla crocefissione, sostiene Hoeller (insieme ad altri storici), Gesù avrebbe predicato per un certo periodo lungo le coste della Turchia, prima di intraprendere un lungo viaggio, in compagnia della madre, che lo avrebbe portato prima in Persia, e poi fino alle pendici dell’Himalaya.

Altri storici hanno trovato tracce di una prolungata permanenza di Gesù in Medio Oriente, dove avrebbe continuato a predicare fino al giorno della sua morte.

Vi sono poi ipotesi di tipo “esoterico” – peraltro meno supportate storicamente - che sostengono che Gesù sia invece giunto in Francia, dove avrebbe dato origine alla stirpe reale dei Merovingi, a cui molti attribuiscono qualità divine.

In ogni caso, quello che conta davvero è la vicenda del Cristo che tutti bene o male abbiamo assorbito nel corso della nostra vita, e che fa ormai parte integrante della nostra cultura. In altre parole, qualunque siano stati gli eventi realmente vissuti da Gesù, quel che conta è il cristianesimo come è giunto fino a noi, e come ha condizionato nel frattempo – nel bene e nel male - l’intero percorso della storia umana.

E forse è persino un bene che sia impossibile fare chiarezza assoluta sulla vicenda reale di Gesù, lasciando così a ciascuno quel margine di interpretazione che è giusto lasciare ad un evento di tale portata storica e di tale valenza spirituale come il suo passaggio sulla terra.